Capitolo Venti: “E se te prometto che quando torno te sposo?”

Per le strade del paese incontravo spesso Tommaso e Gino. Il primo era rimasto piccoletto, con le ginocchia larghe ed ancora lo stesso sorriso furbo di quando si arrampicava sui rami più alti. L’altro si era fatto lungo e smilzo, con un bel nasone da corvo messo sopra quattro peli che gli piaceva chiamare baffi.

Tommaso mi sorrideva o mi faceva solo un cenno col capo, oramai ci eravamo fatti grandi e la confidenza di quando eravamo piccoli non ce la potevamo più permettere. Babbo suo l’aveva messo a bottega e lui faceva all’amore con Rosellina, una ragazza con i denti davanti accavallati, gli occhi svegli e la risata contagiosa.  Maso le passava davanti casa e lei usciva sulla porta con la scusa di risvegliare le braci del ferro da stiro. Lui le strizzava l’occhio, lei rideva ed io mi morivo d’invidia. Quand’ero piccoletta mi ero presa una bella botta per Tommaso e, pure dopo tutti quegli anni, a vederlo fare lo scemo con un’altra femmina mi saliva l’acido fino in bocca. Non c’avevo la dote, non ero tanto bella, non mi potevo sposare, e tutte le altre cose che diceva sempre mamma mia, ma mica ero fatta di legno.

Gino invece non se l’era ancora acchiappato nessuna, ma lui aveva messo gli occhi su una femmina dal carattere dolce come il miele, una famiglia di signori alle spalle e pure una dote grande per far felice mamma sua. Quel fesso s’era preso una bella botta per me.
Quando mi vedeva arrivare dal fondo del viale, si lisciava i capelli e mi veniva incontro con un sorriso da imbambolato. Io cercavo di evitarlo, guardavo per terra, affrettavo il passo, ma lui da quell’orecchio proprio non ci sentiva ed ogni volta m’attaccava un bottone grande quanto una medaglia.
“Ciao Adelì, come stai?”
“Bene, grazie.”
“Io mo lavoro al forno del babbo. E tu che fai?”
“Le cose solite.”
“Perché nun te fermi a chiacchierare nu poco?”
“Perché so de corsa e poi nun stà bene, lo sai.”
“E perché nun stà bene? Noi simo amici da na vita.”
“Nun fare lu finto tonto. Ormai simo grandi e, se me fermo a parlare co te, nel giro di un’ora tutti dicheno che facciamo all’amore.”
Lui aveva il pudore di arrossire ma comunque non mollava, “Io però te devo dire na cosa importante”, mi diceva abbassando un poco la voce.
“Dimmela.”
“Ma no. Mica cuscì. Nun davanti a tutti. Dobbiamo stare solo io e te, core a core.”
“Stai fresco!” gli rispondevo.
Lui allora si allontanava con le mani in tasca e la faccia triste. Io ogni volta speravo che l’aveva capita, ma quel caprone il giorno dopo ricominciava da capo.
A me Gino non piaceva, non in quel senso almeno, ma mi piaceva tanto avere un corteggiatore. In fondo ce l’avevano tutte, pure quelle brutte come la fame. Tutte tranne le Zaccaria, quelle non le ha mai volute nessuno. Anche se, secondo me, Bastiano un giro con una delle due se lo deve essere fatto. Che quello era buono e caro ma mica un santo e Saretta, che c’aveva gli occhi un poco meno storti e i capelli un poco meno stopposi della sorella, con lui giocava sempre a “Cecco me tocca, toccame Cecco”. Io sta cosa a Bastiano gliel’ho anche chiesta quando eravamo già vecchiarelli ma lui, che ormai aveva seguito la strada sua e s’era fatto frate, ha avuto la faccia di rispondermi: “Ma te sembrano discorsi da farse tra n’omo de chiesa e na signora pe bene?”
Che a casa mia se uno ti dice così vuol dire solo che la risposta è sì. E bravo Bastiano!

Io, ad averci un corteggiatore, mi sentivo più grande e persino più bella. Delle volte, dopo averlo incontrato, correvo a guardarmi allo specchio del cassettone di mamma per capire cosa ci trovasse lui di tanto interessante in me. Quando non c’era nessuno mi tiravo anche su i capelli per cercare di assomigliare alle attrici che si vedevano nei cartelloni del cinematografo a valle. Ma il risultato non era mai un granché.
Per tutta la vita non mi sono mai vista bella ma, Gino prima ed Augusto poi, mi ci hanno fatta sentire spesso. E questo è uno dei più bei regali che un uomo può fare alla donna sua.

Anche se Lucia era ormai moglie e madre ogni tanto riusciva comunque a dedicarmi un poco di tempo per chiacchiere e confidenze.
“Lucì, te la posso chiedere na cosa?”
“Certo.”
“Pure se è na cosa nu poco delicata?”
“E che sarà mai? Da quand’è che te sei fatta timida? Chiedeme quello che voi.”
“Tu s’innamorata?”
“Sì”, mi rispose subito col sorriso sincero e gli occhi belli che le brillavano.
“D’Augusto?”
“E certo, Adelì, de chi se no? Dellu vecchio della vigna?”
“Ma s’innamorata d’Augusto come d’Emilio?” le chiesi tutta seria e a bassa voce, perché certi discorsi sarebbe meglio non farli proprio, ma quando si fanno bisogna sussurrarli appena appena, che le malelingue c’hanno l’orecchio più fino di quello del diavolo.
“No, è na cosa tutta diversa. Emilio me faceva sentire le farfalle nellu stomaco. So passati tanti anni, io ero piccina e lui me pareva cuscì bello.”
“Pe esse bello era bello ma pure nu stronzo come pochi.”
“Già.”
“Ma era meglio lui o Augusto?”
“Emilio era come nu cavallo, uno de quelli sempre agitati. Te cerchi de starce su ma prima o poi finisci co la faccia a terra. Augusto invece è come una de quelle bestie forti, che magari nun sono cuscì belle, ma quando ce sali sopra possono portarte fino alla fine dellu monno.”
“Ho capito: Augusto è nu mulo”, dissi non riuscendo a trattenere le risate, che io a fare un discorso serio per troppo tempo non ci sono riuscita mai.
“Adelì, si proprio scema! Pensa all’ asino tuo e lascia stare lu mulo mio!”
“Quale asino?”
“Nun fare quella faccia da santarellina, che lo sai benissimo de chi sto a parlà. Gino te gira sempre intorno. Quello s’è preso na botta pe te quando eravate du pupetti e nun gli è passata più.”
“A me li asini nun me piacciono e nun me sono piaciuti mai. Me possono girare attorno quanto vogliono ma nun me ne frega gnente.”
“Pe davvero?”
“Certo.”
“Allora diglielo, nun lo devi prendere in giro”, mi disse con la migliore vocetta da maestrina severa, che manco La Pera c’aveva na voce così.
“Io nun prendo in giro proprio a nisciunu, sa. Quello fa tutto da solo. Che ce posso fare?”
“Nun glie devi da dare corda.”
“Co la corda ce se pò appendere”, e me ne andai sbuffando. Lucia era peggio della coscienza mia. Pure se non avevo ancora fatto niente, riusciva comunque a farmi sentire già in colpa.

In quel periodo molti ragazzi del paese partirono per la guerra: due dei Parise, Tommaso e i tre fratelli Casotti. Quando pure Gino ricevette la cartolina mi pregò d’incontrarlo al ruscello dove ci trovavamo da piccoletti, ed io non ebbi cuore di dirgli di no.
“Devo andare in guerra, Adelì.”
“L’ho saputo. Me raccomanno sta attento e nun fare lu coraggioso, che nun si capace. Pensa solo a tornare alla casa tua tutto intero.”
“Ma allora t’importa?”
“Ma che si scemo? Certo che m’importa!”
“Allora me voi bene?”
“Nun cominciare Gino. Te voglio bene come a n’amico.”
“Solo?”
“E te pare poco?”
“No, per carità, è na cosa bella, ma io te voglio più bene ancora. Io te penso sempre e quando te vedo me viene caldo e me gira la capoccia.”
“Nun avrai mica magnato qualcosa coi vermi?”
“Eddai Adelì, stai sempre a scherzare tu! Io so serio: me piace tutto de te, li occhi che te brillano quando ridi e pure li ricci tua. Tutto.”
“Se, vabbè, da quand’è che te si fatto poeta?”
“Adelì, perché nun me credi?”
“Nun è che nun te credo, io lo so che tu certe cose le pensi, ma è che sei nu poco esagerato.”
“Se n’omo dice quello che tiene ne lu core nun è mai esagerato. E poi li complimenti alle femmine piacciono.”
“E tu che ne sai delle femmine?”
“Io gnente, ma Carlo m’ha detto cuscì e fratello mio de ste cose ci capisce.”
“Ancora retta a quello dai? Secondo me è meglio che t’impari a fare da solo, che fratello tuo dalle femmine c’ha preso solo dei gran calcioni nellu di dietro.”
“Nun è mica colpa sua, è che s’innamora sempre della femmina sbagliata.”
“Davvero? Sarà na tradizione de famiglia allora.”
“Che voi dire?”
“Gnente, nun è importante. Senti, Gino, mo devo proprio andare, tu prometteme solo de stare attento.”
“Aspetta ancora nu minuto: te devo chiedere na cosa.”
“Cosa c’è? Che voi ancora?”
“Te posso scrivere?”
“Ma che dici? No, che nun puoi!”
“Perché no?”
“Perché nun so leggere, razza de rincojonito! Avrò fatto una mesata de scola scarsa in tutta la vita mia!”
“Scusa, pensavo che avevi imparato ormai.”
“E quando? Mentre ricamavo o quando toglievo la merda dal pollaio?”
Se c’era una cosa di cui mi vergognavo tanto era proprio l’essere ignorante. A casa mia tutti sapevano leggere e scrivere solo io ero peggio d’una capra.
“Dai Adelì, nun c’è bisogno che t’arrabbi. Magari te fai leggere le lettere da quarghidunu.”
“E da chi? Noi nun simo fidanzati, te lo voi mettere nella capoccia? Ste cose le possono fare l’innamorati, mica noi.”
“E se te prometto che quando torno te sposo?”
“Certo, come no! E gliel’hai già detta a mamma tua sta grande idea? Chissà come sta contenta.”
“Che c’entra mamma mia? Sono io che devo sceglierme la moglie, mica lei.”
“Ma se nun te fa scegliere manco li calzini.”
“Nun è vero.”
“Te li fa ancora mettere i mutandoni che pungono?”
“Solo quando fa friddu. Ma questo che c’entra?”
“C’entra, eccome se c’entra! Senti, facciamo na cosa: tu pensa a tornare vivo e poi ne riparliamo, va bene?”

Forse avrei dovuto essere più sincera, come mi aveva detto Lucia mia, ma Gino stava per partire per la guerra: non gli potevo mica dire che lui ed io non ci saremmo sposati mai, che io non ero innamorata e che gli volevo bene come a un fratello. Si può dire una cosa così ad uno che sta per andare in guerra?
E poi quel pomeriggio pensai che lui poteva anche non tornare mai più, e che quella poteva essere la prima ed ultima occasione per provare ciò che provavano le altre. Quelle con la dote. Quelle con un fidanzato. Quelle che nel futuro c’avevano un marito e dei figlioletti.
Così presi coraggio, feci un passo avanti, gli buttai le braccia al collo e lo baciai. Fu una cosa da imbranati, tutta bava e denti. Io che lo tenevo per gli orecchi e lui che m’impastava fianchi e culo come se fossi un bel pezzo di pasta lievitata.
Gino non fece manco in tempo a cercare di stendermi come una focaccia che io me n’ero già corsa via.

Mamma mia, che mi vide arrivare con il fiatone e le guance rosse, mi fece gli occhiacci ma non disse niente. Io andai subito al cassettone. Volevo vedere se ero cresciuta, se dopo quel bacio m’ero fatta donna. Ma allo specchio ci stava la solita ragazzotta senza finezza e con la faccia da furba.

Quando Gino tornò dalla guerra fu molto deluso dal trovarmi già sposata. Ma se ne fece in fretta una ragione e, pochi mesi dopo, portò all’altare una ragazza di un paese vicino, che aveva conosciuto ed ingravidato alla festa del loro santo patrono. Un donnone dalle forme generose ed il carattere da generalessa.

Al figliolo del fornaio sono sempre piaciute le donne dalla crosta tosta e croccante ma dal corpo morbido come la mollica del pane.

Continua...


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